Ekoe stoviglie monouso compostabili

Che cosa è il Greenwashing

A cura di Marte

lettura di circa 6 minuti

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non vedo non sento non parlo...

Come riconoscere il Greenwashing

Alla comodità di un gesto meccanico è difficile rinunciare. 

La polvere sotto il tappeto l’abbiamo messa, almeno una volta nella vita, più o meno tutti. Si sistemano col piede i bordi dello zerbino davanti al portone e ci si illude così di avere, oltre che un disimpegno migliore di quello del vicino, anche la coscienza un po’ più pulita.

È quel che succede con quell’amico con la community card della catena di supermercati bio che compra solo uova biologiche perché il packaging è verde e gli allevamenti sono 100% italiani (da quel che c’è scritto sulla confezione). 

Effetto alone e marketing green

Sugli scaffali dei supermercati le palette dei verdi e gli slogan che inneggiano a produzioni green, sostenibilità, ecocompatibilità, biodegradabilità e mille altre abilità millantate a voce più o meno alta ci assicurano la garanzia di un acquisto immediato a cui attribuiamo un valore sociale. In pratica con qualche euro non compriamo soltanto la bottiglietta di CocaCola parzialmente realizzata in plastica riciclata (rPET), ma anche un token di redenzione nei confronti dell’ambiente. Che poi la multinazionale sia responsabile della produzione di circa 200.000 tonnellate di rifiuti in plastica al giorno poco importa. 

Ci siamo, in poche parole, talmente impigriti, che l’impegno ambientale, quando c’è, spesso si ferma ai colori sgargianti di multinazionali - di solito poco virtuose - che si autoproclamano promotrici di un tipo di consumo diverso, verde e più sostenibile. Quel che c’è da chiedersi, però, è quanto sostenibile possa essere un acquisto fatto con la stessa fretta con cui si comprano hamburger e patatine alla più vicina catena di ristoranti di fast food statunitense. 

Un acquisto mosso, dall’altra parte, da un marketing che fa leva su sensibilità sovrastimolate nell’era post-consumistica con cui ci ritroviamo a fare i conti: parlano ai nostri sensi di colpa, evocano tutte le volte in cui abbiamo buttato il vasetto dello yogurt nella plastica senza lavarlo o i mozziconi a terra, sempre per pigrizia, magari perché il cestino della spazzatura era troppo lontano. 

Così, con un semplice gesto e con il dirottamento dei nostri acquisti verso prodotti che rientrano in questa narrativa (spesso sedicente) ecologista e ambientalista, si vende anche un modo per estinguere, anche se parzialmente, quel debito che tutti ci sentiamo di avere nei confronti del pianeta. 

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Diamo una mano di verde di pittura acrilica

È, quello del greenwashing, un fenomeno affatto nuovo. Il termine apparve già a metà anni Ottanta in un’America che esplodeva dal proliferare di strategie di marketing più mirate, che tentavano di allinearsi con nuove aree delle coscienze dei consumatori, quelle risvegliate dai primi movimenti ambientalisti dopo decenni di sfruttamento indiscriminato delle risorse e dei processi produttivi scatenati dai tempi delle rivoluzioni industriali. 

È l’equivalente, in termini di tecniche di mercato, di quel che si fa quando si nasconde la polvere sotto al tappeto. In compenso il tappeto è intatto e profuma di nuovo. 

Campagne pubblicitarie

A dare una mano di verde alle proprie campagne pubblicitarie all’inizio erano, principalmente, multinazionali e aziende che per la natura della propria attività si ponevano nettamente al polo opposto rispetto a qualsiasi propensione etica ed ecologica. 

Il colosso petrolifero statunitense Chevron spese milioni di dollari per una serie di campagne pubblicitarie in cui si rendeva pubblico l’impegno dell’azienda per la protezione di orsi, farfalle e tartarughe. La narrativa era, diremmo oggi, primitiva, e il messaggio veniva spudoratamente veicolato con immagini di prati verdeggianti su cui gli orsi potevano, grazie al contributo di Chevron, finalmente tornare a giocare. Un greenwashing, insomma, anni Ottanta, dietro cui si nascondeva il paradosso di un contributo monetario che arrivava a malapena a 5.000 dollari. 

orso

Che faccia ha il greenwashing oggi? 

Con gli anni l’estetica pubblicitaria e le strategie di comunicazione si sono, ovviamente, smussate ed evolute. Non significa certo che il greenwashing non abbia più appiglio sui consumatori o ragione d’esistere. Significa, però, che la narrativa è cambiata e con essa a cambiare deve essere anche la nostra sensibilità, in quanto consumatori, a fare acquisti che riescano ad andare oltre l’appeal che può esercitare uno shampoo con delle foglie di eucalipto disegnate sulla confezione o un bicchiere in cartoncino e plastica sponsorizzato come totalmente compostabile. Probabilmente, ma se si rimuove lo strato in plastica magari.

Nel green consumerism, una nuova forma di consumismo che diventa eco-friendly, Slavoj Žižek sostiene che ci sia una sorta di deresponsabilizzazione da parte delle aziende: il prodotto è pubblicizzato come biologico, compostabile, totalmente biodegradabile, i font usati per gli slogan ricordano le curve delle foglie e i colori ci proiettano subito in una piazzola incontaminata vicino a un ruscello. Sì, ma poi?

L’ottica di un’economia circolare    

Il problema sostanziale è che questa deresponsabilizzazione è illecita e lavativa. 

Torna di nuovo la politica della polvere sotto il tappeto, della mano di verde passata per comprarsi anche soltanto un pezzetto del nostro senso di colpa: quel che succede dopo, alla morte del prodotto, non importa. 

Alla fine dello scorso anno sul gruppo Facebook “No Plastic Shopping” era stata postata la sezione di un prodotto Innisfree, un’azienda coreana che commercializza prodotti naturali per la cura del corpo. La bottiglietta in cartone, con l’etichetta “Hello, I’m paper bottle!” - rigorosamente in verde - non era altro che un involucro, un rivestimento che nascondeva, all’interno, un contenitore in plastica, poco verde e sicuramente poco sostenibile. 

A scartare la sorpresa devono essere, ovviamente, i consumatori. 

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Consumi sostenibili?

Quando un’azienda di imballaggio lancia una nuova linea di vaschette, ovviamente “eco-friendly”, realizzate in polpa di cellulosa ma laminate con un film in plastica PET (polietilene tereftalato), sono sempre i consumatori a  dover occuparsi, poi, dello smaltimento. 

E quando arriva il momento della verità, davanti ai bidoni della spazzatura, questi contenitori in polpa rivestiti in PET dove andranno a finire? 

I produttori applicano il film e ai consumatori tocca sollevare questo velo di Maya della finta sostenibilità. 

E così per altre cento, mille bottiglie in plastica che si autoproclamano più green delle concorrenti, carte alimentari dai doppi strati sedicenti compostabili e contenitori liquidati sul mercato con l’etichetta di compostabilità, senza certificazioni o spiegazioni di alcun genere. 

Quel che succede dopo, nella parte finale del ciclo di vita di ogni prodotto, è un problema di qualcun altro. 

Al di là dei golden standard del greenwashing, dei famosi marchi e di aziende petrolifere che si impegnano a pubblicizzare il proprio contributo per la salvaguardia dell’ambiente c’è tutto un mondo, in cui rientra anche il monouso, fatto di quotidianità e cibi consumati in pausa pranzo.   

Etica e sostenibilità

Quando, acquistando una bottiglietta in plastica di acqua minerale, leggiamo di slogan come “impatto -1” o “- plastica, + natura” che tentano di convincerci, con pressappochismo e sfrontatezza, che con quello specifico packaging di quella specifica azienda nel nostro carrello aiutiamo a ridurre l’inquinamento degli oceani e torniamo a casa dopo aver fatto un gesto eticamente “giusto” o “migliore”, qualcosa sicuramente deve essere andato storto. 

Sono campagne di comunicazione che cercano di tagliare corto, di aggrapparsi all’istintività di un consumatore 4.0 che, come tutti, è sempre in cerca di un modo per assicurarsi un posto in paradiso, anche se lo fa con pigrizia. 

Squadernare numeri e cifre negli spot, elencare le quantità di plastica che si riducono se si acquistano, comunque, prodotti in plastica, rientra in un circolo vizioso e in un paradosso da cui è estremamente difficile uscire armati solo di pigrizia.

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Se non sotto il tappeto, dove mettiamo allora la polvere?

Un modo per troncare questa logica di un consumo fine a se stesso, che nasce e muore senza possibilità di trasformazione, è iniziare a consumare in maniera attiva. Che non significa certo comprare di più o passare una vita a perdere diottrie cercando di capire se un prodotto è più o meno biodegradabile o compostabile, ma comprare in maniera più sicura. 

Dirottare, magari, i propri acquisti verso scelte trasparenti, verso marchi che alle dichiarazioni di compostabilità e ai font in verde accompagnano anche i riferimenti a degli standard e a delle certificazioni, dei marchi con cui ci sia una possibilità di dialogo e costruzione e in cui i movimenti del mercato non sono mai unidirezionali (produttore → consumatore), ma rientrano in un ciclo continuo di feedback e risposte.

Soltanto sollevando il tappeto, nella comodità delle nostre utilitarie e nella fretta della spesa al supermercato compressa in una mezz’ora ritagliata a fatica tra la visita dall’oculista e l’aperitivo, sarà possibile provare a rispondere con un’onda d’urto a tutte le declinazioni del greenwashing e provare a smussarlo, a delegittimarlo e a costringere le aziende alla contestualizzazione. Di numeri, font e slogan.

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